BIOGRAFIA DELLE VERGOGNE DELLA FAMIGLIA BUSH .
Può essere utile, in tempi di revisionismo storico e di intollerabile blindatura dell’informazione, affrescare brevemente i «fasti» della famiglia Bush e dei suoi stretti collaboratori, questa lobby golpista che ha preso in ostaggio l’America e il mondo e che in questi giorni sta devastando un angolo del pianeta per sistemare i bilanci della propria azienda. E come per tutte le dinastie che si rispettino, conviene partire dai patriarchi, cominciando dal bisnonno Samuel Prescott, tra il 1914 e il 1918 uomo di fiducia di PercyA. Rockfeller (proprietario della City Bank e della Remington Arms Co.), direttore della War Industries Board (fabbrica d’armi divenuta potentissima grazie alla Prima guerra mondiale), socio dello speculatore di borsa Bernard Baruch e del «banchiere nero»
Clarence Dillon, frequentatore assiduo dei circoli dell’alta finanza che dettero vita al Cfr (Council of Foreign Relations). Per poi passare a Prescott Sheldon Bush, direttore e azionista della Union Banking Corporation (Ubc), il cui principale partner tedesco era l’industriale nazista Fritz Thyssen, fondata per finanziare la riorganizzazione dell’industria tedesca durante il periodo nazista e finanziatrice della Silesian-American Corporation (diretta dallo stesso Bush) che riforniva di carbone l’industria bellica di Hitler, e della compagnia di navigazione Hamburg-America Line, le cui navi, durante gli anni ‘30, rifornivano di armi provenienti dagli Usa le milizie naziste in Germania.
E poi George Bush Senior, ex vicepresidente e poi presidente degli Stati Uniti dagli anni ‘80 ai ‘90, texano roccioso a cui non piacciono «i puzzolenti formaggi francesi». Uomo indubbiamente di vasti e variegati interessi, equamente distribuiti nel mercato della droga, e poi in quello delle armi e del petrolio. Ripercorriamo velocemente le tappe di questa brillante carriera criminale. Nella migliore tradizione di famiglia, George Senior si fa le ossa nei circoli anticomunisti dell’alta finanza americana; è coordinatore del fallito sbarco nella Baia dei Porci a Cuba, ufficiale di collegamento del narcodittatore panamense Noriega, consulente speciale di Carlyle Group, il principale fornitore di armi dell’Esercito americano, direttore della Cia tra il 1976 e il 1981. Tra il 1981 e il 1986, divenuto vicepresidente degli Stati Uniti sotto Reagan, Bush padre organizza e gestisce giganteschi interessi nel mercato internazionale della droga. Tale attività, forse meno conosciuta, merita una disamina più esaustiva.
Il narcocrate con gli stivali Il 19 settembre e il 26 ottobre 1996, l’Eir {Executive Intelligence Review) tiene due affollate conferenze stampa a Washington, presentando due dossier: «Would a President Bob Dole prosecute drug-super kingpin George Bush» e «George Bush and thè 12333 serial murder ring». I due rapporti contengono una mole impressionante di dati non solo sulle attività illecite gestite da Bush nel traffico internazionale di cocaina, ma anche sulla rete di connivenze costruite dall’ex presidente americano all’interno del dipartimento di giustizia Usa. Il narcocrate Bush inizia la sua ascesa dopo che il congresso Usa decide di smobilitare il sostegno della Cia alle attività dei contras in Nicaragua. Il controllo dell’esportazione della droga, gestito dai mercenari nicaraguensii, passa così sotto due strutture dell’entourage di Bush: il National Security Council Staffe il gruppo Focal Point, interno allo Stato maggiore del Pentagono.
Il complesso delle operazioni di traffico internazionale eseguite sotto la direzione di Bush è ricostruibile anche attraverso una serie di Decreti esecutivi e Decreti di sicurezza nazionale, resi pubblici dopo il 1981, dai quali si evince come Bush, allora vicepresidente sotto Reagan, fu il supervisore assoluto non solo delle attività della Cia, ma anche di tutte le strutture federali segrete emanazione del Pentagono. In tale qualità, organizzò, nell’ambito della vera e propria guerra scatenata dagli Usa contro lo Stato sandinista in Nicaragua, il finanziamento dei mercenari contras attraverso il traffico di cocaina.
Suo braccio esecutivo era il colonnello Oliver North e l’assistente di questi, Rob Owen, ex componente dell’ufficio senatoriale di Dan Quayle. Testa di ponte in Nicaragua era invece Adolfo Calerò, ex membro del consiglio di amministrazione della Coca Cola. Ad
organizzare materialmente i traffici era infine Juan Norwin Meneses Cantarero, noto come «el rey de drogas» a Managua, oggetto sino alla fine degli anni ‘80 di 45 indagini condotte dalla Dea e mai incriminato. Ricky Donnell Ross, trafficante di crack di Los Angeles, in un processo a suo carico del 1996, spiegò che il finanziamento dei contras con il traffico di cocaina iniziò nel 1981, ancor prima che i mercenari iniziassero le operazioni militari contro il governo di Manuel Ortega. In un vertice tenuto in Honduras tra gli esuli nicaraguensi somozisti, Danilo Blandon Reyes, Juan Norwin Meneses Cantarero, il colonnello Enrique Bermudez (ex addetto militare nicaraguense a Washington) e membri della Cia, fu pianificata l’operazione «coca-contras» che prevedeva di inondare i quartieri poveri di Los Angeles e delle altre metropoli americane con cocaina e soprattutto crack importato grazie ai contras.
I
ncaricato di gestire la linea del traffico fu proprio Ricky Donnei Ross che, applicando prezzi stracciati, trasformò la cocaina da droga di élite in sostanza a larghissima diffusione nei ghetti. Obiettivo non secondario dell’operazione era infatti quello di minare ogni forma di aggregazione politica del popolo nero, coinvolgendo le due gang più forti - i Bloods e i
Crips nel mercato della droga.
Tra il 1981 e il 1986 Bush costruì un vero e proprio «governo parallelo», le cui colonne portanti erano pezzi della Cia e del Pentagono, che svolgevano operazioni «coperte» per conto della Casa Bianca senza che la struttura ufficiale di questi apparati ne fosse coinvolta. Ciò era possibile grazie all’organismo creato da Bush, il National Security Council, avente la stessa sigla dell’omonima struttura federale (Nsc), ma che era in realtà uno staff della Casa Bianca alle dirette dipendenze di Bush. Nel 1981 Reagan firmò l’Executive Order 12333, che esonerava le agenzie di intelligence dalle restrizioni operative degli anni ‘70. Tale decreto, relativo a tutte le operazioni di spionaggio estero, conteneva provvedimenti per l’uso di «risorse» private da parte dei servizi segreti e delle forze dell’ordine. L’E.O. 12333, inoltre, affidava al Nsc (quello parallelo) la revisione, la guida e la direzione di tutte le attività dei servizi, mettendo di fatto la Cia e i servizi militari
sotto le dipendenze della struttura creata da Bush.
Il 14 dicembre 1981 fu emesso un altro decreto di sicurezza nazionale (Nsdd-3) che creava lo Special Situation Group (Ssg), guidato da Bush e avversato duramente dal segretario di stato George Schultz poiché tale struttura andava a frapporsi tra lui e il presidente Reagan. Negli anni, il governo parallelo di Bush crebbe ancora. Nell’aprile del 1984 Reagan firmò il Nsdd-138 che dava vita al Terrorist Incident Working Group, (Twig), sempre sotto il comando dello Special Situation Group. Nel luglio del 1985 Bush fu poi messo a capo di una supertask force antiterrorismo formata da funzionari del Pentagono, della Cia, del Dipartimento di Stato, del Nsc, da Oliver «Buck» Revell del Fbi e dall’israeliano Amiran Nir.
Nel febbraio del 1986 questa task force diede vita a un organismo permanente, V Operations Sub-Group (Osg) e fu creato un ufficio antiterrorismo all’interno dello staff del Nsc guidato da Oliver North e dai suoi assistenti Craig Coe e Robert Earl. Le operazioni
segrete del Pentagono passarono invece al Focal Point, sempre sotto la direzione di Bush. Si trattava, secondo gli analisti dell’Eir, di un ufficio camuffato all’interno dello Stato Maggiore della Difesa, che nel 1987 diede vita alla Joint Special Operation Agency, una struttura con risorse di molto superiori alla stessa Cia e che raggruppava VIntelligence Support Activìty (Isa), la Delta Force e la Seal Team 6 della Marina. La potentissima struttura di Bush fu minacciata nel novembre del 1986 dall’esplodere dell’affare «Irangate», anche se molti ritengono che lo scandalo fu organizzato proprio per proteggere i servizi legati al Focal Point e in particolare per insabbiare le prove di una partecipazione dei contras al traffico di droga, e ciò spiega il nome dato successivamente all’affaire:
«IRAN-CONTRAS» .
Eccone le tappe fondamentali.
Nel gennaio-febbraio 1986 la Procura federale di Miami inizia a indagare sulle accuse di traffico di droga rivolte ai contras. Nell’aprile ‘86, sei mesi prima dello scoppio dello scandalo «Iran-contras», la Commissione esteri del Senato Usa apre un’inchiesta ufficiale e molti uomini di Bush, in particolare Oliver North, tentano di insabbiare le prove e di intimidire gli investigatori. Ma le prove continuano ad affiorare, per poi rischiare di divenire schiaccianti il 5 ottobre 1986, quando un aereo da trasporto C-123 della Southern Air Transport, una compagnia legata alla Cia, fu abbattuto nei cieli del Nicaragua. Il pilota rimase ucciso, ma un membro dell’equipaggio, Eugene Hasenfus, fu catturato dai sandinisti.
Hasenfus possedeva informazioni di particolare peso sul commercio con i contras ed era vitale che queste non finissero in pasto all’opinione pubblica. L’opportunità per insabbiare il tutto viene un mese dopo quando, il 3 novembre 1986, il giornale libanese al-Shiraa rivelò che il governo americano vendeva missili segretamente all’Iran nella speranza di ottenere il rilascio degli ostaggi statunitensi detenuti in Libano. In verità la vendita di questi missili era praticamente insignificante rispetto alla mole di armamenti venduta allo stesso Iran dal 1981 in poi, ma l’inchiesta fu abilmente dirottata e fu reso pubblico che i ricavi per la vendita dei missili all’Iran erano finiti in fondi segreti e fuori bilancio amministrati da un consorzio semi privato, «The Enterprise», diretto dal generale Richard Record che, violando gli emendamenti Boland - che vietavano i finanziamenti ai mercenari contras - li aveva dirottati verso questi ultimi. Il 25 novembre 1986, il ministro della Giustizia, Edward Meese, rese pubblica tale ricostruzione e dichiarò che «L’unica persona nel governo statunitense che era precisamente al corrente di questa operazione era il colonnello Oliver North, membro dello staff del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca».
L’opinione pubblica e la stampa concentrarono l’attenzione esclusivamente sul «personale tradimento» di North e la vicenda si chiuse con le lacrime del colonnello durante le udienze al Congresso Usa trasmesse in diretta televisiva. Il gigantesco traffico di droga e armi organizzato da Bush con i contras era salvo, nonostante la Dea, proprio in quegli anni e in quelli successivi, sfornasse rapporti dettagliatissimi sui traffici organizzati dal governo parallelo di Bush in America centrale. Tra i tanti, ne esiste uno particolarmente inquietante, stilato dal funzionario della Dea, Celerino Castillo III («Cele»),e contenuto nella pratica con sigla Gfgd-91-9139, in cui si circo-stanzia con tutti i dettagli che voli arrivati all’aeroporto di Ilopango, a El Salvador, giungevano carichi di armi e ritornavano negli Stati Uniti carichi di cocaina. Questi voli erano super-visionati direttamente dal colonnello Oliver North che si faceva rappresentare in Salvador dall’agente della Cia di origine cubana Félix Rodrfguez, il quale aveva eletto l’hangar numero 4 della Base di Ilopango a centro di smistamento dei traffici. La cosa più stupefacente è che nel rapporto si afferma che l’attività di Rodrfguez inizia dopo una riunione effettuata il 22 gennaio 1985 alla presenza deh” allora vicepresidente Bush e del suo consigliere Donald P. Gregg. Castillo continuò a inviare relazioni dettagliatissime anche nei tempi successivi fino a quando il suo diretto superiore, Bob Stia, gli intimò di non interferire nelle operazioni che si svolgevano ad Ilopango. Analoga «raccomandazione» gli venne fatta dall’ambasciatore nordamericano a El Salvador, Edwin Coir.
Nonostante gli avvertimenti, il 1 settembre 1986 Castillo portò a termine un controllo con unità antidroga nella casa del pilota Wally Grasheim, sospettato di operare nei traffici da Ilopango, nel corso del quale furono rinvenute casse di esplosivo C4, bombe a mano, munizioni e fucili M-16, uno dei quali registrato a nome del colonnello Steel, comandante della missione militare Usa, che dichiarò poi di aver «regalato» il fucile a Grasheim.
Minacciato di morte, Castillo venne a conoscenza che si stava preparando un attentato contro di lui sotto la direzione del colonnello Hugo Francisco Moran, delle forze armate del Guatemala e agente della Cia, la cui responsabilità sarebbe poi stata attribuita alla
guerriglia salvadoregna, ma riuscì a fuggire da El Salvador, nascondendosi poi negli Usa.
LA «WAR ON DRUGS»
E’ solo apparentemente paradossale che negli stessi anni la politica proibizionista di Reagan e Bush, la «war on drugs», raggiunga livelli di vera e propria isteria. Vediamone velocemente le tappe.
Reagan si insedia alla Casa Bianca nel 1980 e dopo pochi mesi lancia un’«offensiva senza precedenti», come lui stesso la definì, contro il commercio di droghe. Artefice e protagonista ne fu in realtà la moglie Nancy che, appena giunta alla Casa Bianca, spese più di un milione di dollari per cambiarne le masserizie, attirandosi le ire della stampa e dell’opinione pubblica. Per rifarsi una credibilità la first lady decise di divenire la paladina del proibizionismo, mobilitando l’integralismo cattolico più retrivo, costituendo associazioni e fondazioni ad hoc e lanciando la politica della «tolleranza zero».
La repressione contro i consumatori di droghe, negli anni 1980-88, si fa durissima e coinvolge anche il Partito democratico, che decide di rincorrere i repubblicani di Reagan sul piano della forca. Quando Bush arriva, nel 1988, alla presidenza degli Stati Uniti capisce che la lotta alla droga può essere un ottimo paravento per coprire le operazioni criminali che gli Usa organizzano in quegli anni in vari parti del mondo. Lancia dunque il cosiddetto «piano Bush», fondato su un assunto agghiacciante: chiunque acquisti una qualsiasi droga va considerato complice dei crimini compiuti dai trafficanti. Bush sa di avere gioco facile con l’opinione pubblica, sconvolta dalla proliferazione del crack nei quartieri poveri e dalle centinaia di omicidi tra bande rivali che spesso coinvolgono passanti del tutto estranei. Bush, che dell’introduzione del crack in America era stato uno degli artefici, riesce a procurarsi un consenso senza precedenti soltanto con la promessa che egli riuscirà a porre rimedio alla drammatica situazione dell’ordine pubblico.
Lo stato di diritto viene letteralmente devastato dalla legislazione d’emergenza e nel piano «war on drugs» vengono convogliati stanziamenti inimmaginabili: il budget per le operazioni antidroga passa dagli 1,5 miliardi di dollari del 1980 agli Il miliardi di dollari del 1991 e l’ 80% delle risorse è utilizzato per la repressione. Le leggi speciali arrivano a degli
obbrobri giuridici: alla fine degli anni ‘80 la sanzione media per reati di droga è di 41 mesi contro i 36 per gli omicidi di primo grado e i 24 per quelli di secondo grado; gli arresti arrivano, nel 1989 a 1.361.700 di cui 800.000 per semplice possesso e circa un terzo per
marijuana. L’affollamento delle carceri raggiunge livelli mai toccati in precedenza: nel 1994 si contano negli Usa 519 detenuti ogni 100.000 abitanti, per la stragrande maggioranza neri e latinos, ben più che in Sud Africa, dove non arrivano a 370. A causa
dell’affollamento delle carceri, molti detenuti per reati di violenza vengono rimessi in libertà prima di aver scontato la pena, e il clamore suscitato da alcuni crimini particolarmente efferati compiuti da alcuni di essi una volta liberi, permette all’amministrazione Bush di lanciare un faraonico piano per triplicare il numero delle celle entro il 1996. Le leggi antidroga prevedono inoltre il sequestro di tutti i beni dei sospetti di traffico o spaccio di stupefacenti. E’ un enorme regalo alla Dea, che incamera direttamente i beni sequestrati:
nel 1988 i sequestri alimentavano il bilancio della Dea per 2 milioni di dollari su 2.500.000:
nel 1991 arriveranno ad essere 10 milioni di dollari su 11.
La «guerra alla droga» giunge ai livelli dei peggiori regimi:
per «contrastare» gli spacciatori vengono istituiti dei «profili» che consentono alla polizia di arrestare chiunque risponda alle seguenti caratteristiche:
• razza diversa da quella bianca
• il fatto di muoversi in fretta
• un viaggio in aereo con il solo biglietto di andata
• un certo tipo di macchina e di targa
• il rispettare su autostrada il limite di velocità, perché si suppone che il trafficante viaggi ad andatura moderata per non attrarre i sospetti della polizia. Viene poi istituita la «legge sui paraphemalia», cioè gli oggetti comunemente usati per contenere e consumare droghe. Tra i tanti arresti giustificati dall’applicazione di tale legge fece scalpore quello di S. Zhanadov, piccolo industriale che produceva contenitori di plastica per campioni di profumi (comunemente usati dagli spacciatori di crack),
condannato a 5 anni di prigione. A partire dal 1987, infine, viene promossa una campagna per la delazione di massa: la polizia distribuisce alla popolazione un questionario («Rapporto su case sospette di droga») che può essere inviato anche anonimamente. Tra le domande compaiono perle tipo:
• segnalare case con finestre con scuri o veneziane che non permettono di vedere all’interno
• segnalare case con palizzate di legno attorno al giardino o al cortile
• segnalare movimenti di persone o di veicoli e annotarne frequenza e durate delle visite, numero di targa,colore e marca dei veicoli Infine c’è il grande business dei test antidroga, in particolare di quello delle urine (in realtà assai poco significativo se non effettuato nelle modalità appropriate) che viene a tal punto sponsorizzato dalle autorità che gli stessi politici, per dimostrare di essere «drug-free», si esibiscono in imbarazzanti performance pubbliche (oltre un centinaio di candidati alle elezioni politiche offriranno la propria urina per dimostrare di essere «Buoni Americani»), con risultati, spesso, da comica finale. Essendo infatti fiorito parallelamente il mercato delle urine pulite, chi era «drogato» si faceva prestare urina da persone che non lo erano, oppure predisponeva complicati dispositivi per «erogare» fraudolentemente urina doc: tra i più ingegnosi furono sperimentate borse di gomma da fleboclisi, tenute sotto l’ascella e collegate con un tubo che arrivava al pene o alla vagina. Spremendo la borsa con il braccio usciva dal tubo urina pulita acquistata dai molti «venditori»; dopo, però, che alcuni funzionari e impiegati statali furono colti in «flagranza di reato», si giunse a imporre che il test delle urine fosse eseguito in presenza di sorveglianti.
Il test delle urine si diffuse a tal punto che, nel 1994, l’85% dei complessi industriali Usa lo imponeva ai propri dipendenti, generando in pochi anni un giro d’affari da un miliardo di dollari, tanto che Carlton Turner, il consigliere per le questioni di droga della Casa Bianca, dopo averlo imposto, si dimise dalla carica per divenire dirigente di una ditta che produceva - guarda un po’ - test antidroga.
I risultati della «war on drugs» furono ovviamente disastro-si: il numero dei consumatori abituali aumentò del 7% (toccando quota 2.700.000), quello degli occasionali arrivò nel 1993 a 24,4 milioni; i morti per cocaina ed eroina passarono dai 1948 del 1985 ai 7705 del 1992.
Una catastrofe, che non impedì all’amministrazione Bush, divenuto nel frattempo presidente nel 1988, di essere parte attiva nel mercato internazionale della droga.
Nel dicembre del 1988 infatti, un attentato terroristico, che distrugge un Boeing 747 della Pan Am facendolo precipitare nei pressi di Lockerbie (Scozia), uccidendo 270 persone, viene faticosamente insabbiato dalla Cia perché rischiava di mettere a nudo gli inconfessabili traffici del Governo americano. Questi sinteticamente i fatti, ricostruiti dall’agenzia newyorkese Interfor e racchiusi in un documento di 27 pagine noto come «Rapporto Interfor».
Verso la metà degli anni ottanta la Dea aveva assicurato a Monzer Al-Kassar (trafficante siriano di eroina coinvolto nell’affare Iran-Contras) un percorso protetto per spedire valigie di droga da Francoforte agli Usa; l’accordo era stato raggiunto attraverso Khalid Jafaar, un corriere della droga che era anche informatore della Dea. In cambio della protezione, Al-Kassar ufficialmente dava alla Dea informazioni su altri trafficanti statunitensi ed europei. L’eroina veniva caricata da Jafaar sui voli Pan Am a Francoforte, d’accordo con la polizia tedesca Bka. A New York, grazie alla Dea, superava senza controlli la barriera doganale. L’operazione veniva chiamata in codice «Operation Courier» e proprio nel quadro di tale operazione doveva avvenire un trasporto di eroina con il Boeing 747 precipitato a Lockerbie. Il giorno dell’attentato, Jafaar arriva all’aeroporto di Francoforte per imbarcarsi sul volo Pan Am diretto a New York; porta con sé una valigia con effetti personali, la consegna al banco e si avvia per imbarcarsi sull’aereo. Egli sa che la sua valigia non arriverà mai a New York, ma sarà sostituita da una valigia piena di eroina. La sostituzione sarà operata da un impiegato turco della Pan Am addetto ai bagagli, il quale porterà la valigia piena di droga oltre i controlli di sicurezza per essere imbarcata sul Boeing.
Quest’ultimo, tuttavia, aveva nel frattempo deciso di collaborare con i terroristi e sostituisce il carico di eroina con una valigia piena di esplosivo. Jafaar morirà nell’attentato e sarà ufficialmente indicato come il kamikaze che lo aveva eseguito. Ma l’agenzia Interfor scopre altre anomalie. Qualche ora prima del decollo, un agente segreto del Mossad allerta il Bka e la Cia su un possibile sabotaggio. Un agente del Bka si insospettisce perché si accorge della differenza di colore fra la valigia consegnata da Jafaar e quella che l’aveva sostituita e avverte la Cia. Dopo il disastro la Dea prima nega tutto, poi ammette che l’Operation Courier era in corso a Francoforte fino a qualche tempo prima dell’attentato, ma nel maggio del 1990 una Commissione d’inchiesta della Casa Bianca dichiara che la Dea non era coinvolta perché tra i relitti dell’aereo non venne trovata droga. Ma ciò avvalora indirettamente la tesi di Interfor.
Qualche anno dopo, nel 1994, Allan Francovich presenta al London Film Festival il documentario Maltese Doublé Cross, che ripropone la pista della droga, ma il film viene improvvisamente ritirato dalla programmazione. Secondo il deputato laburista Tarn Dyell il ritiro fu imposto dalla Dea perché il documentario, riprendendo informazioni del Mossad, rivelava che sul Boeing caduto a Lockerbie doveva esserci il ministro sudafricano Botha e i terroristi avevano approfittato, per realizzare l’attentato, del canale privilegiato predisposto dalla Dea per il traffico di eroina da Francofote agli Usa. su iniziativa - chi si rivede! - di Oliver North.
Il documentario arrivava a due conclusioni inoppugnabili e mai smentite e cioè che:
• strutture del Governo U.S.A. avevano garantito a una banda di trafficanti di trasportare per anni droga dall’Europa agli Usa; tale garanzia non si limitava alla pratica di «guardare dall’altra parte», ma si concretava in attiva collaborazione, tanto che l’Operation Courier aveva rifornito di droga per anni la città di Detroit;
• con il pretesto della «guerra alla droga» le agenzie governative addette alla repressione avevano operato al di fuori di qualunque controllo istituzionale e si prospettavano come strutture parallele dal carattere eversivo. Tutti gli uomini del Presidente Durante gli anni della presidenza Bush si mobilitano interessi economici giganteschi, tutti efficacemente assistiti e sponsorizzati e sempre più fittamente intrecciati con strutture e servizi segreti del Governo: il complesso militare-industriale (Carlyle Group, Lockheed
Martin Corp., McDonnel Duglas Corp., Tennero Inc., General Motors Corp., Northrop,Grumman Corp., Raytheon Corp., General Electric, Loral Corp., Boeing Co., United Technologies Corp.); le Sette sorelle del petrolio (Chevron-Texaco, Exxon-Mobil, Marathon Oil, BP-America - fusione tra Standard Oil e British Petroleum - e BP-Amoco; società satelliti come Halliburton Inc., Unocal, Delta Petroleum, Tmbr/Sharp Drilling ecc); i principali istituti di credito del sistema bancario americano (Citicorp, Citibank , Bank of America, First National Bank of Boston, Morgan Stanley ecc.) e i maggiori gruppi monopolistici del mercato statunitense (At&t; Microsoft; Schering-Plough; Monsanto; Tom Brown Inc.; Motorola; Gulfstream Aerospace; General Dynamics;
Tribune Company; Gilead Sciences; Amylin Pharmaceuticals; Sears; Roebuck & Co.; Allstate; Kellogg; Asea Brown Boveri; Pharmacia, Ford Motor Company; Lear Corp.; Daimler Chrysler; Philip Morris; Amtrak; America Online; Time Warner; Merck; Abbott Laboratories, Brownstein, Hyatt & Farber; NL Industries; Ford Motor Company, Northwest Airlines; Clorox; C.R. Bard; Hca-The Healthcare Company; Dole Food; Northwest Airlines; Enterprise Rent-A-Car; Greyhound; United Airlines; Union Pacific; Boeing, International Paper; Lucent Technologies; Eastman Kodak; Alcoa; Schering-Plough Corp.; Qualcomm Inc.; Eli Lilly; Charles Schwab; Transamerica Corp.).
Questa enorme mole di rapporti economici produce, attraverso uno spregiudicato meccanismo di lobbies e clientele, l’attuale composizione dell’amministrazione Usa.
Guardate che spettacolo: Bushjr., in passato, è stato direttore di una filiale del gruppo Carlyle e - insieme al padre - ha ricevuto onorari da questa società fino all’ottobre del 2001, data alla quale la famiglia Bin Laden ha ritirato i suoi capitali dalla società; il vicepresidente, Dick Cheney, è l’uomo di riferimento dell’industria militare nonché socio del gruppo petrolifero Halliburton Inc.; il Segretario di Stato, Colìn Powell, è uomo di General Dynamics, Gulfstream Aerospace e America Online; il Ministro della Giustizia, John Ashcroft, è la diretta «emanazione» di At&t, Microsoft, Schering-Plough, Monsanto ed Enterprise Rent-A-Car; il Segretario di Stato alla Difesa, Donala Rumsfeld, la «persona di fiducia» di General Dynamics, Gulfstream Aerospace, Asea Brown Boveri, Gilead Sciences, G.D. Searle/Pharmacia, General Instrument/Motorola, Tribune Company, Amylin Pharmaceuticals, Sears, Roebuck & Co., Allstate e Kellogg; la Segretaria di Stato agli Interni, Gale Norton, è strettamente legata a Delta Petroleum, BP Amoco, NL Industries, Brownstein, Hyatt & Farber, e Ford Motor Company; la Consigliera alla Sicurezza Nazionale, Condoìeeza Rice, è la diretta e fedele espressione di Chevron, Charles Schwab e Transamerica Corp.; il Segretario di Stato al Tesoro, Paul O’Neill, è l’interessato «factotum» di Alcoa, Lucent Technologies, International Paper ed Eastman Kodak; il Segretario di Stato al Commercio, Donala L. Evans, è «l’uomo di punta» di Tom Brown Inc. e di Tmbr/Sharp Drilling; il Segretario di Stato all’Energia, Spencer Abraham, è l’uomo di fiducia della grande industria automobilistica e cioè di General Motors, Ford Motor Company, Lear Corp. e DaimlerChrysler; il Segretario di Stato alla Sanità e ai Servizi Umani, Tommy G. Thompson, è controllato da Philip Morris, General Electric, Merck, Amtrak, America Online, Time Warner e Abbott Laboratories; la Segretaria di Stato al Lavoro, Elaine Chao, è legata a Bank of America, Northwest Airlines, Clorox, C.R. Bard, Hca-The Healthcare Company e Dole Food; la Segretaria di Stato all’Agricoltura, Ann M. Veneman, è il «pezzo da novanta» di Monsanto Co e Pharmacia Co., (i principali produttori e propagatori di Ogm nel mondo); il Segretario di Stato ai Trasporti, Norman Y. Mineta, è uomo di Lockheed Martin, Northwest Airlines, Greyhound, United Airlines, Union Pacific e Boeing; il Segretario di Stato agli ex-combattenti, Anthony Prìncipi, è rappresentante degli interessi di Lockheed Martin, Ford Motor Company, Microsoft, Schering-Plough Corp., Federai Network, Qtc Medicai Services e Qualcomm Inc.; il Responsabile dello Staff presidenziale, Andrew Il. Cord Jr., è uno degli «uomini» di General Motors; il Direttore dell’Amministrazione e del Budget della Casa Bianca, Mitch Daniels Jr., è sponsorizzato da General Electric, Citygroup, Eli Lilly e Merck.
George, ti presento Osama.
Negli stessi anni, ma questa è cosa ormai nota, intercorrono fitti rapporti tra la famiglia Bush e quella Bin Laden (entrambe nel Carlyle Group). I Bin Laden investono nella Carlyle qualcosa come 1,3 miliardi di dollari e Jean Becker, a capo dello staff di Bush Senior, ha affermato ufficialmente che quest’ultimo ha incontrato i Bin Laden due volte, nel novembre 1998 e nel gennaio del 2000.
Secondo quanto afferma lo stesso Wall Street Journal Europe del 28-29 settembre 2001, la famiglia saudita aveva inoltre solidi legami con gli ambienti del partito repubblicano Usa e una forte influenza su alcuni suoi autorevoli membri. Al centro degli interessi statunitensi verso i Bin Laden vi era ovviamente l’Afghanistan, ricchissima riserva di petrolio che le società legate alla famiglia Bush, Unocal Corporation in testa, bramavano da tempo di possedere. John J. Maresca, vicepresidente delle relazioni internazionali di Unocal Corporation si presentò il 12 febbraio 1998 davanti al sottocomitato del Congresso degli Stati Uniti per l’Asia e il Pacifico per parlare proprio dei progetti della Unocal e delle altre compagnie petrolifere sugli idrocarburi dell’Asia centrale ed espose in questi termini i progetti della compagnia:
«Noi dell’Unocal riteniamo che il fattore centrale nella progettazione di questi oleodotti dovrebbe essere la posizione dei futuri mercati energetici che verosimilmente assorbiranno questa nuova produzione. L’Europa occidentale, l’Europa centrale e orientale e gli Stati ora indipendenti dell’ex Unione sovietica sono tutti mercati a crescita lenta, in cui la domanda crescerà solo dallo 0,5% all’ 1,2% all’anno nel periodo 1995- 2010. L’Asia è tutto un altro discorso. Il suo bisogno di consumo energetico crescerà rapidamente. Prima della recente turbolenza nelle economie dell’Asia orientale, noi dell’Unocal avevamo previsto che la domanda di petrolio in questa regione si sarebbe quasi raddoppiata entro il 2010. Sebbene l’aumento a breve termine della domanda probabilmente non rispetterà queste previsioni, noi riteniamo valide le nostre stime a
lungo termine. Devo osservare che è nell’interesse di tutti che vi siano forniture adeguate per le crescenti richieste energetiche dell’Asia. Se i bisogni energetici dell’Asia non saranno soddisfatti, essi opereranno una pressione su tutti i mercati mondiali, facendo
salire i prezzi dappertutto. La questione chiave è dunque come le risorse energetiche dell’Asia centrale possano essere rese disponibili per i vicini mercati asiatici. Ci sono due soluzioni possibili, con parecchie varianti. Un’opzione è dirigersi a est attraversando la Cina, ma questo significherebbe costruire un oleodotto di oltre 3.000 chilometri solo per raggiungere la Cina centrale. Inoltre, servirebbe una bretella di 2.000 chilometri per raggiungere i principali centri abitati lungo la costa. La questione dunque è quanto costerà trasportare il greggio attraverso questo oleodotto, e quale sarebbe il netback che andrebbe ai produttori...
La seconda opzione è costruire un oleodotto diretto a sud, che vada dall’Asia centrale all’Oceano Indiano. Un itinerario ovvio verso sud attraverserebbe l’Iran, ma questo è precluso alle compagnie americane a causa delle sanzioni. L’unico altro itinerario possibile è attraverso l’Afghanistan e ha naturalmente anch’esso i suoi rischi. Il Paese è coinvolto in aspri scontri da quasi due decenni, ed è ancora diviso dalla guerra civile. Fin dall’inizio abbiamo messo in chiaro che la costruzione dell’oleodotto attraverso l’Afghanistan che abbiamo proposto non potrà cominciare finché non si sarà insediato un governo riconosciuto che goda della fiducia dei governi, dei finanziatori e della nostra compagnia. La Unocal ha in mente un oleodotto che diventerebbe parte di un sistema regionale che raccoglierà il petrolio dagli oleodotti esistenti in Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakistan e Russia. L’oleodotto lungo 1.040 miglia si estenderebbe a sud attraverso l’Afghanistan fino a un terminal per l’export che verrebbe costruito sulla costa del Pakistan. Questo oleodotto dal diametro di 42 pollici avrà una capacità di trasporto di un milione di barili di greggio al giorno. Il costo stimato del progetto, che è simile per ampiezza all’oleodotto trans-Alaska, è di circa 2,5 miliardi di dollari. Lo scorso ottobre è stato creato il Central Asia Gas Pipeline Consortium, chiamato CentGas, e in cui la Unocal ha una cointeressenza, per sviluppare un gasdotto che collegherà il grande giacimento di gas di Dauletabad in Turkmenistan con i mercati in Pakistan e forse in India.
Il prospettato gasdotto lungo 790 miglia aprirà nuovi mercati per questo gas, viaggiando dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan fino a Multan in Pakistan. Il prolungamento proposto porterebbe il gas fino a New Delhi, dove si collegherebbe a un gasdotto esistente. Per quanto riguarda il proposto oleodotto in Asia centrale, CentGas non può cominciare la costruzione finché non si sarà insediato un governo afghano riconosciuto internazionalmente». Come sappiamo il piccolo Bush accontenterà con sollecitudine i
desideri di Mr. Maresca. Ma questa è storia di ieri?
I TORTURATORI CHE VIVONO IN FLORIDA. di Doug Saunders.
Se ti interessa visitare l’individuo coinvolto in una delle più sanguinarie e atroci pagine della storia di Haiti ad opera dei militari, dovrai soltanto guidare fino in Florida e girare a sinistra poco prima del mitico parco di Walt Disney. Qui su una strada campestre, nella parte ovest del sobborgo di Orlando, si trova il grazioso bungalow ricoperto in legno che è stato per anni la casa del maggiore Jean Claude Dupervall. Quest’uomo è stata la persona più potente di Haiti nel violento dopoguerra seguito a un colpo di mano che si verificò nei primi anni ‘90. Varie corti haitiane hanno condannato Dupervall in contumacia per connessione con il massacro di Raboteau, nel quale intere famiglie inermi furono portate fuori dalla città, dai loro bassifondi vicino al mare e uccise a colpi di armi da fuoco. Dupervall è soltanto uno dei centinaia di torturatori, esecutori e violatori di ogni diritto umano che sono stati accusati da paesi stranieri e che vivono liberamente negli Usa. I vicini ce lo descrivono come un uomo quieto, che vive con sua moglie e i bambini, anche se non si spiegano coma mantenga la famiglia da quando perse il suo lavoro un anno fa, quando il parco di Walt Disney venne a conoscenza di alcuni articoli su di lui e sul suo vero passato. Il generale Dupervall è un legale residente degli Stati Uniti e le voci ufficiali ritengono molto diffìcile la sua estradizione, nonostante le gravi motivazioni. Prima del colpo di mano di Haiti era già considerato un alleato da molti ufficiali dell’esercito americano e il suo permesso di entrata negli Usa fu garantito in cambio di preziose informazioni. Ed è ben lontano dall’essere il solo.
Secondo i gruppi di tutela dei diritti umani soltanto nello stato della Florida ci sono più di cento torturatori e assassini da Haiti, Cile, Honduras, El Salvador, Cuba e altri paesi. La maggior parte di loro vive legalmente, spesso negli stessi quartieri delle loro precedenti vittime. Soltanto recentemente si è esercitata una forte pressione sulle autorità
dell’immigrazione statunitense, riguardo a tale situazione. Gli Stati Uniti sembrano essere molto lontani rispetto ad altri paesi nel riconoscere e condannare i torturatori e gli assassini provenienti da paesi stranieri, anzi in molti casi li accolgono con calorosi attestati di benvenuto e un’offerta immediata di asilo.
Dice Richard Crieger, un avvocato per i diritti umani che con il gruppo associato in Florida si dedica alla ricerca di questi tipi di criminali, «noi non abbiamo leggi per combatterli». Il problema è ormai fonte di imbarazzo per alcuni politici statunitensi che hanno gettato nella bufera Washington, ricordando come ci sia stata una deportazione di massa di persone provenienti da paesi considerati associati al terrorismo come Iran ed Afghanistan, se mancanti di un’adeguata documentazione e nello stesso tempo molte persone, accusate di crimini atroci e già condannate nei loro paesi di origine, sono state invitate a restare negli Usa.
Secondo Vienna Colucci, un avvocato specializzato in diritto internazionale che lavora con Amnesty International, «c’è una distinzione molto chiara tra il sospetto potenziale terrorista e l’abusatore e violatore dei diritti umani». Molte risorse e attenzioni vengono impiegate per la lotta al terrorismo, ma quasi nessuna per i crimini contro l’umanità.
Infatti ora alcune persone credono che il primo caso diminuisca l’altro. In molte situazioni queste ripugnanti figure guadagnano la loro pacifica residenza negli Stati Uniti contrattando con alcuni organi statali come la Cia.
Durante la guerra fredda, infatti, fungevano da informatori sui regimi dei loro paesi o anche sui loro propri crimini in cambio di una loro entrata garantita in America. Gruppi come Amnesty International paventano che simili baratti vengano fatti con i torturatori nella corrente guerra contro il terrorismo. In altri casi alcune persone sono state abilitate ad entrare negli Usa ripetutamente, nonostante il fatto che esistesse una lista computerizzata d’attenzione con i loro nomi. Gli attivisti dei diritti umani (Amnesty ecc. ) hanno identificato 14 delinquenti noti che sono stati inviati direttamente negli Stati Uniti dopo essere stati esiliati dal Canada. Come Ottawa, Washington manca di una legge che forzi coloro che hanno commesso gravi crimini contro l’umanità ad essere rinviati ai loro paesi di origine. Per anni i politici dei vari partiti hanno cercato di far passare una legge conosciuta come «legge antiatrocità» che rendesse l’estradizione e l’applicazione delle condanne possibili. Molti osservatori dubitano che l’attuale Congresso dibatterà questo progetto perché le agenzie come la Cia vogliono mantenere la possibilità di offrire asilo ai loro criminali informatori. Anche nei casi in cui gli altri paesi richiedevano direttamente l’estradizione dei sospetti, gli Usa sono stati estremamente lenti nel rispondere (e poi le hanno negate .
Un altro caso eclatante è quello di Armando Larios residente in Florida, ufficiale sotto il regime di Pinochet, il dittatore cileno. Larios è stato accusato di uccisioni e torture dì oppositori politici dopo il golpe del 1973. Quando arrivò negli Usa nel 1987, confessò di avere responsabilità diretta nell’attentato dinamitardo in cui morì il ministro cileno Orlando Latelier a Washington nel 1976. In cambio di questa informazione, gli Stati Uniti ridussero la sua sentenza a quattro mesi, dai previsti tredici anni, e negarono l’estradizione in Cile. A tutt’oggi è stata richiesta l’estradizione di Larios anche dall’Argentina, per l’omicidio del generale cileno Carlos Prats, avvenuto a Buenos Aires nel 1974. Gli Usa ancora una volta sono estremamente lenti nel rispondere e Larios continua a vivere in modo confortevole in un sobborgo di Miami.
Senza una legislazione che le protegga alcune vittime hanno intentato una causa privata.
Nel caso di Larios, il gruppo dell’avvocato Crieger ha stilato una lista di vittime e intentato una causa a loro nome, contro il militare cileno libero in America. Alcune centinaia di torturatori, accertati agenti della polizia segreta, violatori di ogni elementare diritto umano vivono serenamente negli Stati Uniti. Ecco alcuni dei casi più infamanti conosciuti.
Generale Gillelmo Garcia, residente nel sud della Florida: era il ministro della difesa di El Salvador, dove 75.000 persone furono uccise e molte torturate sotto il suo regime.
Emanuel (Toto) Constant, residente nel Queens, New York: era il leader del Fraph (squadre della morte di Hai ti). La corte haitiana lo ha trovato colpevole e condannato in contumacia. Jamie Ramirez, residente in Hialeah, Florida: membro delle squadre della morte dell’Honduras. E’ ricercato per omicidio nel suo paese di origine.
Xinga Tang, residente a S. Francisco: accusato di esperimenti chirurgici sui prigionieri cinesi, gli è stato garantito asilo. Didier Cedras, residente nel sud della Florida: fratello e consigliere del dittatore haitiano Raul Cedras, è stato implicato nelle morti di vari oppositori politici del governo. La sua immigrazione si trova in un limbo.
Un'articolo esaustivo ed illuminante.
RispondiEliminaSul marcio della politica statunitense.
Ottimo lavoro.
per condannare senza appello i Bush padre e figlio basterebbe ricordare le loro due guerre con cui hanno devastato l'lraq trasformandolo in un cimitero creando le premesse per l'attuale martirio del medio oriente. Ma appunto andrebbero ricordate. Poi non bisognerebbe dimenticare che sono gli Usa stessi ad esportare armi e guerre e che i Clinton e gli Obama, malgrado l'apparenza meno bieca e le parole ancora più ipocrite in quanto farcite di finto pacifismo, hanno proseguito la politica di guerre inaugurata da Bush padre, direttamente come in Kosovo Libia Afghanistan e indirettamente come in Siria e in tutti gli angoli del medio oriente dove hanno mandato i droni assassini ad operare sulla popolazione civile. Trump non sembra da meno ma per ora appare meno interventista dei suoi predecessori, incluso l'indegno premio nobel Obama
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